Racconto in un minuto, 200 parole… circa
Il treno Milano-Lecce d’agosto puzzava di umanità, povera, emigrata, che tornava a casa ad agosto, ammucchiata ovunque ci fosse spazio. Nel corridoio, seduto a terra, schiacciato, stavo tra mia madre e un ragazzone. Più in là, i suoi amici.
Avrà avuto vent’anni. Non ero mai stato così vicino a un estraneo prima, con tutti quei capelli e un barbone come ne vedevi solo al cinema. I ricci gli si allargavano sulla testa, per poi ricomporsi magicamente, ogni qualvolta scuoteva la testa per accompagnare quella musica strana che usciva dal suo mangianastri. Ogni mezz’ora girava la cassetta, che girava e girava all’infinito. Noi vicini sentivamo, sopportavamo tutto, di tutti. I sobbalzi, il caldo, la puzza e il sudore tra le nostre pelli. La musica erano suoni strani, veloci, che insieme al rumore delle ruote sulle traversine dei binari, mi sembravano solo un caos. Ero confuso da quella musica, come un ignorante. E ingenuo come un bambino.
Lo fissavo, il ragazzo, che mi rispose.
“E’ jazz”. Mi disse
“Non ci capisco nulla”
“Non sei il solo. Certi capiscono il jazz solo soffrendo. Altri, invece, non lo avrebbero capito neppure ascoltandolo mille volte.”
“Per me è solo caos” scrollando le spalle
Lui se la ride: “caos si, ma on porpuse”.
Da allora restammo in silenzio a lungo, quanto il viaggio. Poco dopo le pile scariche, lasciarono i rumori del treno a farci compagnia. Lui scese ad Ancona. Io ero solo a metà viaggio.
“Ti auguro di non capirlo mai”, mi disse girandosi appena prima di scendere i gradini del Milano-Lecce d’agosto.